8 Giugno 2005

Old Boy - Recensione

Ebbene sì, oramai sono diventato un cultore del cinema coreano e con piacere mi trovo di nuovo a commentare una pellicola di quel lontano paese. Old Boy diretto dal talentuoso Park Chan-wook un anno fa è stato premiato con il Gran Premio della Giuria al festival di Cannes e ora è arrivato nelle sale italiane. Il film narra la storia di Oh Dae-soo che viene rapito e imprigionato apparentemente senza motivo. I 15 anni successivi li passa chiuso in una stanza con la sola compagnia di un televisore senza sapere chi l'abbia imprigionato nè perchè. La permanenza nella scarna cella in cui vive è quanto di più vicino ad un incubo, Oh Dae-soo, viene drogato, ipnotizzato, assiste inerme alla notizia dell'uccisione della moglie per cui viene incriminato. Solo una cosa può tenerlo in vita, la sete di vendetta. Improvvisamente Oh Dae-soo si ritrova libero, solo, spaesato, in una Corea molto diversa da quella che ha lasciato, con la sensazione di essere solo passato in una prigione più grande; solo l'amore per Mi-Do, la giovane cuoca incontrata casualmente, sembra dare un senso alla sua vita. Ora Oh Dae-soo può finalmente cercare vendetta, quel feroce sentimento covato per 15 lunghi anni può essere liberato. Basterà? O forse serve anche una spiegazione?

Allucinate gioco della parti, Old Boy è un film che spiazza lo spettatore trascinandolo, pur contro la sua volontà, in un crudele meccanismo spietato e disturbante, dove la violenza reale o immaginata ("la gente si spaventa soprattutto per colpa dell'immaginazione" dice uno dei personaggi "non immaginare è molto meglio ") è pari (e probabilmente inferiore) solo alla violenza piscologica. Nulla è quello che sembra in questa pellicola in cui il regista ha sempre il controllo su chi guarda, alternando scene che fanno leva sull'immaginario a sprazzi di grande forza visionaria, affascinanti trovate formali a onirici trabocchetti sensoriali, perchè "se fai le domande sbagliate non troverai mai la risposta giusta".
Old Boy è quanto di più diverso da quello che ci propone la cultura occidentale, un trattato sulla vendetta in cui la spettacolarizzazione della violenza non serve a donarci quel senso di appagamento per la redenzione finale, bensì a trascinarci senza tregua nell'angoscia del senso di vuoto che si ha quando la vendetta è ormai raggiunta, ma ci si ritrova soli e prigionieri delle proprie paure oppressi e soffocati dal peso delle proprie responsabilità. Se un difetto vogliamo andare a cercarlo forse si può parlare di un finale un po' troppo lungo, con un graduale chiarimento dei fatti. Un colpo di scena che c'è, ma non è così improvviso, piuttosto invece lento e inesorabile, quasi a soffocarci lentamente con il progressivo e inevitabile dispiegamento della verità (ma è questo un difetto, o semplicemente un distaccarsi dagli schemi classici che conosciamo?)

Meritati dunque, a mio parere, i giudizi positivi che molti hanno espresso sul film e meritato il posto sul palcoscenico che piano piano il cinema orientale si sta guadagnando anche in casa nostra; tendenza non dettata dalla moda, ma da una indiscutibile qualità delle opere che beneficiano oltre che dell'ottimo lavoro di talentuosi registi anche di un'invidiabile originalità nelle sceneggiature ben lontane dalla sterilità di un cinema occidentale che vive ormai in massima parte di sequel, prequel e remake. Mettete dunque da parte i preconcetti e non storcete il naso di fronte ad un film che viene da una terra lontana, potreste restare sorpresi nel rendervi conto che forse se il regista non avesse un nome tanto difficile da pronunciare, ma si chiamasse ad esempio Quentin Tarantino, molti probabilmente oggi parlerebbero di capolavoro.

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Autore: Pisq
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